“Giovani schiavi resi tossici e decerebrati: gli studenti italiani” il giudizio del Senato
Qualcuno avverta Netflix che il soggetto per il prossimo episodio di Black Mirror lo possono trovare tra i documenti del Senato della Repubblica Italiana. Si tratta del documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’impatto del «digitale» sugli studenti, con particolare riferimento ai processi d’apprendimento – un’indagine iniziata il 14 maggio 2019 e che, in undici sedute, ha portato a ben una (1) paginetta di considerazioni e raccomandazioni, approvata lo scorso 9 giugno.
I toni del documento oscillano tra il caricaturale, il distopico, il semplicistico e il paternale. La commissione ha approvato un documento finale nel quale si passa – senza soluzione di continuità – dal descrivere gli atroci effetti del digitale sui giovani (tra cui figurano l’ipertensione e il diabete), alla descrizione dei centri di riabilitazione dal digitale in Cina («inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento.»), a qualche riga sghemba sul fenomeno degli hikikomori, all’immancabile citazione di Huxley in chiusura – giusto per dare quel tocco drammatico di cui effettivamente si sentiva la mancanza.
Nel leggere le righe (e ancor di più, le raccomandazioni) di tale documento, verrebbe da pensare che l’ultimo anno e mezzo non sia stato segnato da una pandemia globale, dalla chiusura delle scuole, dal continuo avvicendarsi di quarantene e coprifuochi. No. Verrebbe da credere che il mondo digitale, gli strumenti tecnologici e gli spazi virtuali siano stati marginali, e non le ancore di salvezza per il nostro sistema educativo, sociale, finanche economico. Verrebbe da credere che l’orologio si sia fermato a quel 14 maggio 2019, e non vi sia stato null’altro.
Sapete cosa? Probabilmente è stato proprio così: risulta difficile, se non impossibile, per chiunque sia delle nostre generazioni, non notare come non siano le informazioni a dominare il parere della commissione, quanto il preconcetto. La rivoluzione digitale, che pure viene nominata, è strumentale per dimostrare un unico punto: i giovani sono «decerebrati», futuri «zombi», «schiavi resi tossici».
La commissione argomenta, con una sintassi creativa: «Dal 2001, anno in cui le console per videogiochi irrompono nelle camerette dei ragazzi, e con un’accelerazione impressionante dal 2007, anno in cui debutta lo smartphone, depressioni e suicidi tra i giovanissimi hanno raggiunto percentuali mai viste prima. (…) A tutto ciò vanno sommate le conseguenze sui più giovani dell’essere costantemente a contatto con chiunque e con qualsiasi cosa. Istigazione al suicidio, adescamento, sexting, bullismo, revenge porn…»
Scrivono come se il mondo digitale non replicasse problemi comunque presenti nell’Italia di oggi. Scrivono come se fossero state le mie ore passate a giocare a Crash Bandicoot quando ero più piccolo a causarmi la depressione, e non il fatto che siamo alla terza crisi economica in vent’anni. Scrivono come se a farci soffrire fosse il tempo che trascorriamo su Instagram, e non la mancanza di tutele sul lavoro, l’assenza di prospettive, il contesto che ci circonda. Scrivono come se il revenge porn fosse causato dal proliferare dei social media, e non dal sessismo eteropatriarcale che si infiltra ovunque; come se il bullismo dipendesse dal numero di likes che riceviamo, e non da problemi (e disagi) più complessi. Scrivono che si tratta di reati (il sexting è un reato? Portatemi le arance a Rebibbia) «facilitati dal fatto che nelle piazze virtuali non trovano spazio le regole in vigore nelle vecchie piazze reali.» Come se non fossero loro le persone deputate a dover scrivere regole nuove. Scrivono dei fallimenti della classe politica degli ultimi vent’anni e ne attribuiscono le colpe all’avanzamento tecnologico.
Non scrivono delle comunità di aiuto e di confronto che riescono a proliferare grazie a Internet. Non scrivono di tutti quelli fra di noi che grazie alle possibilità del digitale sono sopravvissuti alla crisi economica. Ignorano tutte quelle persone che sono riuscite ad esprimere la propria identità sessuale, artistica, culturale sulle «piazze virtuali», giacché in quelle «reali» non avrebbero potuto farlo. Non scrivono delle possibilità pedagogiche, di trasmissione della conoscenza, di informazione, di partecipazione democratica portate dalla tecnologia. Non scrivono di competenze digitali, fondamentali per i lavori del futuro.
Chiariamolo: qui non si vuole negare che il digitale possa avere delle conseguenze negative sull’apprendimento, sulla socializzazione, sulla serenità delle persone e dei più giovani. Si vuole affermare il principio secondo cui una commissione parlamentare dovrebbe giungere a un parere e a delle considerazioni più complesse, meno banalizzanti, più oggettive – e invece ci troviamo davanti a un uso del linguaggio inappropriato, specie perché rivolto a intere generazioni; ci troviamo a fronteggiare l’arroganza nei confronti di quelle generazioni che non possono nemmeno votarlo, il Senato della Repubblica; ci troviamo davanti a forme di pregiudizio radicale, senza vie di mezzo, in cui a questo fantomatico «digitale» manca solo un paio di zoccoli e qualche nuvoletta sulfurea per essere Belzebù in persona.
Quel che vorremmo è un gruppo di legislatori che lavori con i giovani, magari li inviti anche in audizione quando parla di loro, invece di giudicarli; che rispetti e provi a capire il progresso portato dall’avanzamento digitale; che si immedesimi nella quotidianità di quei milioni di giovani e di persone che usano gli strumenti e le piattaforme digitali per vivere, per lavorare, per formarsi e per esprimersi; che riconosca il valore di tali canali di comunicazione nel mondo di oggi. Vorremmo un dibattito in cui ci sia l’onestà intellettuale di riconoscere che la correlazione non è necessariamente causa. Il web e il digitale devono essere compresi, capiti, forse finanche regolati – è imperativo aumentare la consapevolezza dei cittadini (e delle istituzioni) rispetto a tali strumenti e spazi.
Questo documento, approvato all’unanimità da tutti i 23 senatori e senatrici presenti, rappresentanti di tutte le parti politiche di maggioranza e opposizione, è un passo nella direzione sbagliata.